«Avrei voluto urlare quello che sentivo ma sono rimasto zitto per paura di non essere capito». Accade non di rado di sentire frasi come queste durante il setting clinico. Denotano la profonda sofferenza che, spesso, è la causa di disfonie troppo velocemente considerate “laringiti” o “tracheiti” trattate con corticosteroidi et similia. Il laringe di chi non ha amore e/o di chi non lo sente, di chi soffre l’abbandono tattile ed empatico, di chi vive l’arte come fuga dai rapporti reali, di chi ha subìto violenza, è un apparato in costante ipotono o in compenso ipertonico irrisolvibile se non in àmbito di team, con la presenza insostituibile dello psico- o almeno del movimento-danza-terapeuta.
Bisognerebbe che il clinico avesse maggiore competenza nello studiare il tipos della voce e dell’habitus dei pazienti/clienti impegnando un po’ del tempo anamnestico nella ricerca e nella comprensione anche dell’àmbito onirico che tanto può ajutare il percorso diagnostico e quindi curativo. Infatti, spesso è il sogno il luogo archetipico donde, con frequenza, emerge il dramma
inteso come ‘azione’ plurideclinabile; in Greco: dráo, ‘agisco’ ma anche ‘uccido’. Gli è simile il Latino actor, il cui significato, da ago, sta per ‘faccio’ e per ‘incalzo, perseguito’
che non si riesce ad esprimere (bene e/o consapevolmente) nella veglia. Esso permette, cioè, di far venire fuori, con violenza attutita e, quindi, generalmente controllabile, la spina irritativa individuata la quale si può lavorare con il e sul paziente. La depressione sottosoglia, il verme che tanto ferisce entrando negli animi, trova nell’onirico un canale privilegiato di espressione. Il cliente/paziente non sempre, però, sa descrivere il contenuto dei proprî sogni; individuare il bandolo della matassa diventa, pertanto, estremamente più difficile che (eventualmente) gestirlo, ammesso che il cosiddetto “vocologo” possieda le armi per farlo.
[da: Alfonso Gianluca Gucciardo, Silenzio e Voce per lib(e)rare il sé in scena e in ogni dove, Qanat, Palermo 2016, 157–158]