Perché prendersi cura della voce è difficilissimo?

È la bellezza a sanare le ferite dell’anima e, talora, contestualmente quelle del corpo. Una grande fetta di disfonie – in passato note come “psicogene”1 – trova ragione d’essere nel fatto che il soggetto, notoriamente di sesso femminile ma oggi anche del maschile, non ha più (o mai ha avuto) il proprio modello vocale e umano eupnoico, eufonico ed eubiotico. Senza modelli, il sé e, quindi, la voce non si formano, sono deboli, non si riconoscono come veri, non hanno forza di pro-porsi, di fare intro-spezione, di in-dividuarsi. La voce dell’altro forma la nostra voce, soprattutto se si tratta dei genitori: la/il madre/padre biologica/o e l’eventuale successiva/o (è il caso delle adozioni) non si accorgono, spesso, nemmeno di quanto le proprie voci formino non soltanto la psiche del bambino/ragazzo (l’assunto meriterebbe un libro a parte) ma anche la sua voce. Prendersi cura della voce è difficilissimo. Lavorare con la voce di ognuno di questi soggetti, prima singolarmente e, poi, a gruppo, è una delle esperienze più proficue che un “operajo della/sulla voce” possa fare. Se, poi, egli riesce pure, nel tempo, a sbloccare il gesto, 

non può sussistere apertura fisica se c’è chiusura sfinteriale (per esempio della glottide o dello sfintere anale

la voce e il movimento si sincronizzano, non fanno più la lotta e – non senza passare da fasi di stupore proficuo o di non accettazione – si regolarizzano nel ritmo, nei volumi, nella frequenza, trovano un timbro con-sono al proprio sentire emotivo e strettamente fisico.

È quasi un malcelato psicodramma in cui il “vocologo” non preparato in tal àmbito deve farsi ajutare da figure specifiche che l’équipe di medicina della voce (anche non artistica) non può non possedere. Perché prendersi cura della voce è difficilissimo?

Per­ché pren­der­si cura del­la voce è difficilissimo?


Estrat­to da: Alfon­so Gian­lu­ca Guc­cia­r­do, Silen­zio e Voce, Qanat, Paler­mo 2017, 80 (modif.) ISBN: 978.88.98245.99.4


1 Per­sonal­mente preferisco definir­le “psi­core­late”. Le ragioni di tale scelta si trovano in: Alfon­so Gian­lu­ca Guc­cia­r­do, 2005a, 2007a e b.